LA NAVE DEI SOGNI

Le operazioni di imbarco come al solito sono state lunghe e laboriose, la cosa più difficile è stata riuscire a superare la schiera di volenterosi che sperando in una mancia, si offrono di  aiutarti a risolvere problemi che esistono solo nelle loro teste. Comunque finalmente sono sulla nave,e dal ponte guardo Tangeri; vorrei riuscire a restare qui a guardarla fino alla partenza ,fino a vederla sparire all’orizzonte ,cercando i luoghi conosciuti,le case degli amici; ma sono troppo stanco,la sveglia aveva squillato inutilmente alle sei, che non avevo chiuso occhio tutta la notte,preso dalle preoccupazioni dalle nostalgie che sempre precedono un distacco.
Gli occhi mi si chiudono per il sonno,e,mancano ancora un paio d’ore alla partenza, sempre che venga rispettato l’orario previsto,ma gli imbarchi procedono lentamente e vedo ancora una lunga fila di mezzi in attesa;  allora,anche se mi dispiace, scendo in cabina a riposare un poco e subito la stanchezza e l’agitazione del trasloco mi fanno cadere in uno stato di torpore che non è né veglia né sonno; resto così disteso nella mia cuccetta, lasciando che i pensieri e le emozioni,si susseguano nella testa e nel cuore inerti.
Non tornerò mai più a Tangeri, continuo a ripetermi godendo del senso di pace che questo pensiero mi suscita; ma forse è tristezza, infinita,profonda, rassegnata  tristezza, come di fronte alla morte. Già,è proprio l’ambiguità, che mi è diventata insopportabile ultimamente,non riuscire a definire chiaramente i confini di qualsiasi cosa,mi fa paura,mi sembra di scivolare a poco a poco in un caos nel quale non riuscirò più a ritrovare neppure me stesso. L’ Identità  è data dai confini,c’è un confine che separa l’amicizia dall’amore, la verità dalla menzogna,la luce dal buio,il lecito dall’illecito; sono questi confini che ti permettono di distinguere tra una persona onesta e un delinquente,se è il caso di fidarsi oppure no,di qualcuno, ma pure di te stesso.
Forse è proprio questo il problema,è dentro di me questa confusione che mi lacera,questo pantano di sabbie mobili  nel quale soffoca la mia esistenza,Tangeri  è solo uno specchio beffardo, nel quale è riflessa l’immagine della mia agonia; è questo lo spettacolo da cui scappo,che mi è diventato troppo difficile  da sopportare ; ma qualcosa improvvisamente mi distoglie da questi pensieri;lentamente,molto lentamente,la porta  si sta aprendo,  forse è solo qualcuno che ha sbagliato cabina,però bisogna che stia più attento,non posso  addormentarmi lasciando  aperto. Mi rassereno anche se solo in parte rendendomi conto che è la mia  mano  quella che ha girato la maniglia, sono io stesso dunque, evidentemente spinto  dalla voglia di uscire sul ponte; c’e qualcosa che mi sfugge però,in quello che sta accadendo,anche se non riesco a capire cosa; forse è il panorama,forse è il mio abbigliamento,o forse sono stupito di me stesso,della mia stessa presenza;mi sento confuso,pensavo di essere partito da Tangeri,ma forse mi sbaglio,e poi… sul ponte l’aria fresca del mattino mi fa rabbrividire,eccola la madonnina “Vos et ipsam civitatem benedicimus” dice l’iscrizione sulla base della colonna che le fa da piedistallo,”benediciamo voi e la vostra città”, traduco più per intuito che per reminiscenze scolastiche. E’ il porto di Messina dunque quello che sto lasciando, ma anche la Sicilia,il sole,l’estate,il mare,i giochi,la spensieratezza,  perché gli occhi mi si riempiono  di lacrime? Perché questi singhiozzi?E’ solo la Sicilia che sto lasciando o è la mia giovinezza,”lo so che non ha senso guardare indietro,che non c’è più tempo,“Guarda laggiù”mi dico, “quella è la Calabria,  il futuro è li davanti,  prenderò il treno per Roma, ma come mai ho la barba lunga? Mi sembrava di averla fatta…e poi …è bianca,e anche i capelli…sono lunghi e bianchi quelli che mi arrivano negli occhi, a ciocche, scompigliati dal vento,ma mi piace sporgermi dal finestrino ad annusare l’aria  che sa di campagna e di fumo.  Ma certo,sono in treno…correndo verso un sogno,…scappando da un sogno…non lo so ,non sono più sicuro di nulla, in questo sferragliare assordante  nel quale si dissolve ogni cosa,senza darmi il tempo di sapere di chi era quel volto, senza darmi il tempo di chiedergli:”chi eri per me?…cosa ero per te…?
Mi sveglio da questi sogni,forse per il rumore del motore,o forse per l’ampio beccheggiare della nave e mi accorgo che siamo partiti,forse siamo già lontani dalla costa,chissà può darsi che dall’oblò riuscirò ancora a salutarla, anche se da lontano,Tangeri distesa nella sua baia;ed eccola infatti,riesco ancora a vederla,una striscia bianca tra l’azzurro del mare e del cielo,e mi vengono in mente i pomeriggi noiosi al cafè de Paris, quelle giornate spazzate dal Levante,con le buste di plastica che volano dappertutto,e la gente nervosa,insofferente,sono tutti nervosi a Tangeri quando soffia il Levante,e gli amici;Mohamed nella salina di Asilah,dove a volte si posano i fenicotteri;Claude,bellissima e solitaria che prende il sole sul terrazzo del Minzah;e tutto improvvisamente mi sembra meraviglioso.
Eccomi di nuovo impantanato nei miei dubbi,da una parte quasi un eroe romantico ferito nell’orgoglio,continuo a ripetermi che non tornerò mai più a Tangeri,mentre intanto gli occhi mi si riempiono di lacrime,e il cuore di struggente nostalgia. Un Amleto col naso schiacciato sul vetro dell’oblò,di una nave  in rotta per l’Italia,mentre l’anima  non riesce a salpare l’ancora da un sogno che la realtà ha trasformato in incubo.
Via,via, basta con questi pensieri, meglio andare a prendere un caffè,o a dare un’occhiata sul ponte,in mezzo alla gente,ma ora bisogna che vada via  dalla solitudine insopportabile di questa cabina.
Entro nel più piccolo dei due caffè che fanno servizio sulla nave,semplicemente perché c’è meno gente, e perché vedo un tavolino libero da dove si vede il mare. Sono tutti marocchini quelli che sono seduti a gruppi intorno,chiacchierano come fanno loro,gesticolando in maniera  incredibilmente espressiva. Una volta che mi era venuto in mente di studiare l’arabo,sopraffatto dalle difficoltà ,conclusi sarcasticamente che loro stessi non si capirebbero se non si aiutassero con le mani. Ci sono pure dei bambini, che giocano,come tutti i bambini del mondo,correndo,gridando,ma loro parlano in italiano, stranamente tra di loro,mentre giocano parlano in italiano, capiscono però perfettamente il rimprovero in arabo di un uomo seccato per il troppo chiasso,e si calmano,almeno per un po’. Mi ritrovo a pensare a  con quanta determinazione sono salito su questa nave sognando di lasciare per sempre Tangeri,convinto che sarebbe bastato questo a farmi ritrovare un po’ di serenità,come se nella vita fosse possibile liberarsi dalla sofferenza, e per sostituirla con cosa poi? E che cosa ci resterebbe  nel caso  fosse fatta della stessa materia della felicità?Guardo fuori dall’oblò,il mare è increspato,le onde si alzano nere e si dissolvono in candida schiuma,siamo ancora nello stretto di Gibilterra,il mare qui è perennemente agitato da correnti contrastanti,perché l’Atlantico e il Mediterraneo  incontrandosi lottano a lungo prima di trovare pace. Ma quanta ricchezza è nata e continua a nascere ancora da questo incontro! E’ proprio vero,la lingua batte dove il dente duole.
I bambini intanto hanno ricominciato a rincorrersi tra i tavoli,ma i loro schiamazzi ora non sembrano più infastidire gli uomini seduti intorno,che anzi li osservano divertiti se non cercano addirittura di entrare a far parte del gioco.
Sarà per il mare che mi culla, sarà per la mia incapacità cronica di uscire dai dubbi,o sarà semplicemente perché l’allegria dei bambini ha coinvolto tutti,me compreso,ma improvvisamente non sono più così sicuro che non tornerò mai più a Tangeri,e mi sento meglio,mi rendo conto che anche la mia faccia si distende,che addirittura sto sorridendo,quasi un ammalato condannato a morte dal cancro,cui viene improvvisamente detto che esiste una speranza.
Nei due giorni di navigazione che ci vogliono per andare da Tangeri a Genova,su una nave che non è sicuramente nata per le crociere di lusso,e che non offre quasi nessuna distrazione tranne i due bar con due televisori che trasmettono perennemente video della peggiore musica araba;un momento particolarmente atteso,è l’ingresso al ristorante,soprattutto la prima volta,perché un ufficiale ti assegna un posto a un tavolo che resterà tuo fino alla fine della traversata,favorendo così la formazione di piccoli gruppi  che spesso proseguono le loro conversazioni anche fuori dal ristorante. Io sono seduto ad un tavolo per quattro,e mi sorprendo nel rendermi conto che i miei commensali sono italiani anzi toscani dal loro italiano senza “c”,mentre fino a quel momento avevo pensato di essere l’unico italiano a bordo.
La cucina  sulla quale preferisco stendere il classico pietoso velo,attira subito la loro ironia,e battuta dopo battuta cominciamo a chiacchierare. Avranno più o meno una trentina d’anni, ma forse la ragazza un po’ meno, mi sembra più vicina ai venticinque che ai trenta, viaggiano in moto,attrezzati di tenda e di ogni cosa possa essere utile per campeggiare e per essere autonomi;sono spartani anche nel modo di mangiare,perché nonostante la feroce ironia sul montone cucinato alla non si sa come,lo hanno spazzolato in pochi bocconi;per me è un’altra cosa,basta l’odore a provocarmi un vago senso di nausea ,e in più sono praticamente vegetariano. Veramente non ho mai amato molto la carne, mia madre dice che sono stato sempre così, sin da bambino,poi un po’ alla volta volente o nolente mi ci ero abituato,nel fondo è la cosa più semplice da preparare se hai fretta,e anche la più sana se frequenti spesso i ristoranti. Poi,anni fa mi capitò di trovarmi in Marocco per “al-aDhha” la festa del sacrificio,che riferendosi alla storia del sacrificio di Isacco,prevede per l’appunto il sacrificio di un montone. Ogni famiglia in questo giorno uccide almeno un animale,a seconda della disponibilità economica e anche del numero dei figli;una strage. Già dal mattino presto belati si levavano da ogni parte,poi,verso mezzogiorno,l’aspro odore della carne fresca messa ad arrostire sul fuoco,cominciò a spandersi dappertutto,a sera,mi sembrava che i miei stessi vestiti avessero l’odore del montone arrostito, e,di fronte ai primi resti  bruciacchiati che cominciavano ad apparire nelle strade per la gioia dei cani randagi, un senso di nausea fortissimo mi prese ,come la sensazione di essere dentro una gigantesca macelleria;e vomitai.
Mi vennero in mente le nostre macellerie, asettiche,dove i pezzi di carne esposti sono dei “tagli”che niente hanno più a che vedere con l’animale cui quella carne appartenne;pensai all’ipocrisia del nostro mondo,dove il cliente non deve essere turbato dalla morte,dal sangue,il lavoro “sporco”deve essere fatto altrove. Mi venne in mente la nostra pasqua,la strage di agnelli,di agnelli dico,caricati e trasportati su camion solo Dio sa come in viaggi interminabili alla fine dei quali la morte gli deve apparire come una liberazione. In Marocco almeno non si macellano gli agnelli,è considerata una barbarie,li si lasciano crescere nei campi e si uccidono solo gli adulti.
Ecco ora quando mi trovo davanti ad un pezzo di carne,nonostante la raffinatezza del piatto,nonostante la chiccheria del ristorante,il mio pensiero non può fare a meno di andare al povero animale spinto a bastonate sui camion,lasciato morire di sete in interminabili soste sotto il sole e ancora maltrattato perché magari si ritrae presentendo la morte.
Inseguendo i miei pensieri ho perso il filo della conversazione  mentre i toscani continuano a parlare tra di loro lasciandomi nelle nebbie dei miei dubbi; solo ogni tanto i nomi di località conosciute mi strappano alle mie elucubrazioni permettendomi di disegnare una mappa. Hanno attraversato in moto tutto il Marocco,la Mauritania ed il Mali,con intenti umanitari che non mi sono del tutto chiari e già sognano un altro viaggio,coinvolgendo altra gente,altri amici,per organizzare una carovana di moto carica di doni.
Non faccio domande perché essendomi distratto non sono sicuro di aver capito bene,ma a me l’idea di portare aiuti in un lontano villaggio dell’Africa con una cordata di motociclisti sembra tanto affascinante quanto folle,se non altro perché una volta caricate di tende,sacchi a pelo e quanto altro di personale possa servire per il viaggio, sulle moto non mi sembra possa restare tanto spazio per gli aiuti. Ma i sogni forse sono  proprio questo,meravigliose esistenze fantastiche che messe  bruscamente a contatto con la realtà mostrano tutta la loro fragilità e finiscono col trasformarsi in incubi. Il ristorante ha incominciato a svuotarsi e già qualche cameriere si muove rassettando i primi tavoli rimasti vuoti ed anche i miei commensali sono sul punto di alzarsi;io resto ancora un poco, avevo deciso di andare a letto subito dopo cena,non per stanchezza ,quanto piuttosto per quel desiderio di “non esserci”che ultimamente mi accompagna sempre più frequentemente;e invece mi ha incuriosito lo strano viaggio dei tre amici toscani, mi piacerebbe saperne di più, capire se sono matti oppure no, se quello che li anima è spirito umanitario o desiderio di avventura. In fondo potrei perdere un po’ di tempo prima di andare a letto, bere una birra nel bar dove si riuniscono tutti ad ascoltare musica, sicuramente loro ci andranno , la nave non offre altro,e non hanno l’aria di gente che va a letto alle otto di sera.
Preferisco aspettare un po’ prima di andare al bar,ora ci saranno solo donne e bambini ,e poi mi è venuta voglia di andare sul ponte,per prendere un po’ d’aria e per guardare la notte. Nel buio solo le piccole luci di una nave che incrocia; pioviggina,cadono dal cielo gocce sottilissime e gelide,e mi rendo conto che l’Africa è lontana.
Ho dovuto tornare in cabina a cambiarmi; seguendo la nave che incrociava sulla rotta delle mie nostalgie ,sono rimasto sotto la pioggia fino a inzupparmi,comunque ho ottenuto il mio scopo,sono quasi le dieci mentre sto entrando nel bar. La musica a tutto volume e una nuvola di fumo mi vengono incontro,fingo di cercare un tavolo libero mentre mi inoltro tra bambini che giocano sulla moquette sporca di residui di noccioline ,bicchieri di plastica,lattine; ma non riesco a vedere i miei amici toscani, forse non sono ancora arrivati, ma potrebbero anche non venire proprio, e mi sorprendo per non averci pensato prima.
Visto che ci sono ormai ci resto;mi siedo al primo tavolo libero che mi capita, e cerco di farmi vedere dal cameriere per ordinare da bere. Sono contento mentre sorseggio la mia birra immerso in questa confusione di bambini che si rincorrono,di musica,di gente che parla,di uomini che battono le mani al ritmo ondeggiante dei fianchi di una ballerina  di danza  del ventre che sembra quasi dover uscire da un momento all’altro dai loro sogni per materializzarsi li in mezzo a noi. Si mi sento felice, come nella schiuma di un bagno caldo alla fine di una giornata,guardando le bolle,che nascono,che si colorano d’arcobaleno, che scoppiano.
“Scusi avrebbe da accendere?” Mi sussurra un voce da dietro, non ho bisogno di girarmi per sapere che è un marocchino,dal suo “italiano milanese”esibito quasi fosse un passaporto da emigrante. “Scusi”…e la voce è talmente vicina che è quasi solo un alito caldo sul collo,”mi dispiace non fumo”,gli rispondo voltandomi;e mi trovo davanti due occhi più neri del buio, che mi fissano, che sorridono,che non capisco se amichevoli o no . Certo  si è reso conto del mio sconcerto ,per questo mi rassicura con una  pacca sulla spalla mentre si affretta ad aggiungere “meglio,così non fumo”.
Mustafà è di corporatura pesante,è una di quelle persone  che sembrano non essere mai state giovani,forse perché nonostante si sforzi di sorridere la sua faccia resta seria; potresti dargli tra i quaranta e i cinquanta anni,ma anche se ha i capelli completamente bianchi sono sicuro che deve averne meno,una decina di meno; forse trentacinque, tiro a indovinare,trentotto mi corregge lui esplodendo compiaciuto in una fragorosa risata. Vive in Italia da più di venti anni,a Milano,vicino Milano si corregge poi,”fa i mercati”,vendendo sulle bancarelle abbigliamento,così mi sembra di capire, ma mi rendo  subito conto che non parla volentieri di se,risponde alle domande con pochissime parole e sembra perdere ogni interesse alla conversazione. Si anima invece quando è lui a fare le domande, di dove sei?Dove vivi?che lavoro fai?E la famiglia?Come mai non c’è la famiglia con te sulla nave?Non sei sposato? Perché non ti sei sposato? Ci sono abituato,per questo ho ormai la risposta pronta, “sono separato”è quello che l’esperienza mi ha insegnato a dire;in realtà non è vero,ma come faccio a dargli una spiegazione che non so dare neppure a me stesso;per gli arabi sembra sia importante conoscere il tuo stato civile, e la tua risposta è determinante per l’andamento che prenderà la conversazione. “Sono separato” ha il potere di instaurare  un clima di complicità, si sentono subito in dovere di consolarti,come se alla separazione dovesse necessariamente corrispondere uno stato di infelicità e cominciano a parlarti delle vie misteriose sulle quali la vita può condurti,della luce che appare proprio quando il buio sta per diventare insopportabile,sentenziando che senza ombra di dubbio se è andata via,sicuramente non ti meritava. Mustafà invece ha una reazione diversa; resta per un momento assorto a trafiggermi con i suoi occhi bui, poi esclama: “potresti sposarti con mia nipote “, ed esplode di nuovo in una grassa risata mentre con le mani accenna a volermi dare il “cinque”in segno di complicità. C‘è qualcosa di inquietante nella sua maniera di ridere,non sei mai sicuro se stia ridendo con te o di te; mentre me ne rendo conto ha già fatto cenno al cameriere di portare due birre. Un sorso dietro l’altro la sua diffidenza comincia ad allentarsi e si lascia andare a parlare di se stesso. E’ nato a Moulay Bousselham,un paesino sulla costa atlantica  a nord di Rabat. Ci sono stato anni fa,mi ricordo le poche case in fila ai lati dell’unica strada,ma soprattutto mi ricordo la splendida laguna ,con i gabbiani,gli aironi,i fenicotteri;e c’è un sacco di pesce aggiunge lui,”ci vado sempre a pescare con i miei figli quando sono in Marocco”. Ne ha quattro di figli,ma spera di averne ancora,e,lo sottolinea esplodendo in una nuova risata . La  famiglia è rimasta a vivere li,in una grande casa che è riuscito a costruire con il suo lavoro in Italia, è come diciamo noi,una famiglia allargata,con a capo una vecchia madre malata e dispotica,ma forse,sospetto, più semplicemente malata di dispotismo,che regna sulle due famiglie, quella sua e quella di un fratello più grande,della quale farebbe parte la famosa nipote offertami, tra il serio e il faceto, in sposa. Riesce ad andarci due o tre volte l’anno,una,immancabilmente per il Ramadan, e poi…quando il lavoro lo permette.
Certo, aggiunge non è stato facile,soprattutto all’inizio;” lo sai? Mi dice: quando è stata la prima volta che mi sono vergognato della mia  povertà? No,non è stato a Moulay Bousselham , li ero come tutti gli altri,nessuno ci faceva caso se avevo le scarpe rotte, o se non ce le avevo neppure”.
Si interrompe e approfittando del cameriere che gli sta passando a fianco gli chiede di accendere  e ordina altre due birre. Praticamente piuttosto che fumarla la sigaretta la mastica come se fosse un chewing gum; facendomi così intuire una tensione altrimenti molto ben dissimulata; provo a farglielo notare, non tanto per sapere cosa risponde, quanto per vedere come reagisce. Ottengo due risposte;la prima è uno sguardo,che mi trapassa come una spada e che sembra chiedere: non ti interessano queste cose ? Vuoi andare oltre ? Sei sicuro di esserne capace? La seconda è un sogno: “certo… se le leggi lo permettessero,voglio dire se diventasse meno difficile…se fosse  nel volere di Allah di darmi questa fortuna…questa felicità…mi piacerebbe un giorno poter portare tutta la famiglia in Italia, a Milano,la moglie, i figli, perché abbiano la possibilità di avere una vita diversa dalla mia, vorrei che andassero a scuola, che studiassero, così magari un giorno, da vecchio, guardando mio figlio dottore, o ingegnere, o professore, vestito bene, con una bella macchina, una bella casa, potrei sentirmi orgoglioso dei sacrifici che ho fatto…e poi… anche per mia moglie, lo sai…quando parto,  anche se cerca di non farmene accorgere io lo so che ha gli occhi pieni di lacrime, per me, anche se non sono bello, anche se  sono troppo grasso, anche se sembro un vecchio, sono per me quelle lacrime nascoste  che io faccio finta di non vedere, sono per me, sono il suo regalo per farmi  compagnia fino al prossimo viaggio; chi lo sa forse pensa che ho un’amante”, conclude ridendo; ma è una risata esagerata, falsa, che non trasmette nessuna allegria. Lui stesso se ne accorge ed ha un attimo di imbarazzo, poi si guarda intorno, quindi si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “stai  qua, aspettami, faccio una cosa e torno subito”.
Trovandomi solo mi accorgo che il bar si è praticamente svuotato, sono rimaste pochissime persone, non ci sono più i bambini, e neppure le donne; sono rimasti solo pochi uomini, alcuni chiacchierano bevendo birra, altri sonnecchiano  allungati sulle poltrone, più in la vedo i miei amici toscani che giocano a carte; già,  mi ero completamente dimenticato di loro , di quei progetti fantasiosi di viaggi, di aiuti umanitari vissuti con l’allegria e la spensieratezza di una vacanza, semplicemente mi accorgo che non mi incuriosiscono più, mi rendo conto dell’abisso che esiste tra le loro sicurezze e i miei dubbi sterili, tra la leggerezza della loro gioventù e il peso  dei miei anni  carichi di un  passato  dal quale non posso, non voglio, non so  separarmi.
Ecco, se solo mi giro di un poco gli do le spalle, e,  tra il buio e la distanza, è difficile che riescano a riconoscermi;  pur ammettendo che gliene freghi qualcosa o che si ricordino ancora di me. Il tempo è volato, si sono fatte le due e mezza con Mustafà  e quelle birre che ora mi annebbiano un poco la testa; vorrei andare a dormire, ma  gli ho detto che lo avrei aspettato, e poi, la verità è che mi ha incuriosito; nel fondo c’è qualcosa di simile tra di noi, siamo tutti e due emigranti, che partendo alla ricerca di un poco di libertà,hanno finito col trovare solo nuove schiavitù. Lo aspetterò, devo solo risolvere un piccolo problema, perché le birre hanno fatto in fretta il loro percorso e premono dolorosamente alla ricerca della loro libertà. Tornando dalla toilette,lo vedo là, in piedi, di fianco al tavolo, con una busta di plastica in mano, si guarda intorno,mi cerca, è deluso; sicuramente pensa che me ne sono andato;  da lontano gli faccio cenno con la mano cercando di farmi notare,mi vede,e, mi risponde con un gran sorriso, poi, tirata fuori una lattina di birra dalla busta ,la agita in aria quasi fosse un trofeo o una bandiera di vittoria. Temeva che me ne fossi andato via, ed è veramente felice, che sia rimasto ad aspettarlo;  mentre me lo dice, lo guardo sorpreso perché improvvisamente mi appare come un bambino, eccitato da un nuovo gioco che gli è inaspettatamente capitato tra le mani. Ma comincio anche a  rendermi conto che tutta questa felicità mi spaventa un poco, quasi fosse una responsabilità, cosa si aspetterà da me?  Forse pensa che sono ricco ? Forse pensa davvero che potrei sposare sua nipote, non fosse altro per il permesso di soggiorno? O  Forse il mio aspetto… o il mio interessarmi a lui…
Ma basta,che palle, sempre tutti questi ma, tutti questi se, questi forse; per una volta voglio essere come l’acqua che scorre e passare oltre agli ostacoli dei miei dubbi e della mie paure.
Attraverso il vetro, si vede solo il nero del mare e del cielo e solo ogni tanto, un ciuffo di spuma bianca appare per un attimo sulla cresta di un’onda prima di frantumarsi ed essere di nuovo inghiottita dal buio, gioco a  indovinare da che parte vedrò spuntare il prossimo bagliore; allungato su una poltrona del bar ormai deserto, con la testa in preda ai flutti di troppe birre cui non sono abituato, mentre Mustafà  continua a parlare…povero Mustafà, che le mie paure stavano per trasformare in un mostro pronto ad approfittare delle mie ricchezze, dei miei privilegi di occidentale, della mia bellezza…quale bellezza? Quali privilegi? Quale ricchezza? Sono riuscito ad avere paura persino di essere derubato di cose che non posseggo; d'altronde sono un occidentale,c’è l’ho nel DNA la certezza di essere migliore,più  ricco, più colto, più generoso, più tutto insomma; invece voleva solo chiacchierare Mustafà, bevendo qualche birra, per passare qualche ora, aspettando l’arrivo del sonno.
Le birre lo hanno preso per mano e lo portano a spasso nel suo Marocco, tra  ricordi, sogni, speranze… in quel Marocco che sta nel fondo del suo cuore,  non in quello reale, dei problemi sociali, economici, religiosi, il suo  ha lo stupore, la magia, del cuore di un bambino, e allora diventano tutti bianchi e immacolati i qaftàn delle feste, risplendono sempre azzurri e luminosi i cieli di quel mondo fantastico e sono tutte belle le donne che ti spiano nascoste nei loro veli e  non c’è la povertà,  non c’è la sofferenza, che pure lui deve aver visto e conosciuto da bambino in quelle campagne desolate.  
Glielo invidio questo amore totale,senza riserve, che somiglia a quello che si nutre verso una madre; questo sentimento che non giudica, sostenuto da una fiducia totale; glielo invidio perché io non riesco a provarlo; e mi chiedo chi dei due è stato più ingannato. Certo non c’è paragone tra il mio mondo, dove le sole cose necessarie sono ormai le superflue, e il suo, dove tutto è mancato a tal punto da accettare la lacerazione della perdita per non morire; ma gli invidio quel cuore di bambino, quella capacità di credere… che forse a me non è stato concesso di avere. Allora è questo il suo vero sogno, quello che vive gelosamente nascosto, protetto nel fondo dell’animo, quello che non si rivela a nessuno, perché la sua fragilità è tale che basta un nonnulla per ferirlo, per umiliarlo. Sogna il suo paese, sogna di tornarci, ma nel sogno non è né ricco né povero, non ci sono carriere, status simbol da raggiungere, non c’è l’ansia di dover apparire, non c’è il potere; c’è solo un lancinante bisogno di appartenere;  di appartenere alla propria cultura, di ritrovare la propria identità, di poter essere, finalmente, la sua stessa medesima carne.
E’ sceso il silenzio tra di noi ora, ed è un silenzio come di vecchi amici, è un silenzio che non è un vuoto, anzi, è un nuovo più profondo livello di comunicazione, dove non c’è più bisogno di parole, perché la conoscenza ormai non è più un lavoro,una ricerca; ma è una magia, come forse una volta la natura aveva voluto che fosse. D'altronde quale conoscenza era già avvenuta che mi aveva investito di tanta fiducia da permettere alle parole di esistere?  Mustafà se ne va, ha bevuto l’ultimo sorso dell’ultima birra, mi ha augurato la buona notte, e se ne va.
Non ho più motivo di restare ancora seduto in questo bar, improvvisamente la solitudine mi è piombata addosso e mi opprime, ma non ho sonno, so che non potrò dormire, so che continuerò a chiedermi come mai, proprio a me, che mentre salivo su questa nave, giuravo a me stesso che non sarei mai più tornato a Tangeri, proprio a me, un emigrante marocchino, ha deciso di confessare il suo struggente desiderio di tornare.
Mi ritrovo sul ponte e ci sono arrivato quasi senza rendermene conto, ripensando a questa strana notte, a questa strana nave, alle persone, anzi ai sogni che mi è capitato di incontrare, ad altri sogni che non ho conosciuto, che magari mi hanno solamente sfiorato; di bambini, di vecchi, di emigranti, di viaggiatori alla ricerca di un futuro migliore, o chi lo sa,forse di un passato, per farlo vivere, per poter vivere. E’ ancora buio, solo lontano,sulla linea dell’orizzonte, si intravede un bagliore che annuncia il sorgere del sole; voglio restare ad aspettarlo, questo nuovo sogno che come un miracolo inonderà di luce ogni cosa, si, vorrei anch’io essere inondato della sua luce.
Ti prego, fa che io non sia più un’ombra nel buio, fa che la notte passi e che si porti via questa ombra incapace di sognare, incapace di vivere; seppelliscila tra queste onde nere, perché abbia pace, perché non può avere vita. Ti prego fa che anch’io possa risplendere della tua luce, fa che anche io abbia un sogno, per continuare questo viaggio con tutti gli altri, come tutti gli altri, in questo nuovo giorno che sta per nascere,nel mare di luce, su questa nave dei sogni.


Napoli  2007

CIAO

     
Non c’è più niente da fare, me lo sono detto senza troppe parole, senza troppi riguardi; d'altronde chi lo sa se esiste un’altra maniera per confrontarsi con  queste cose; e comunque è inutile girarci troppo intorno, la vita è fatta così, la sofferenza prima o poi ci tocca, e non ci sono parole che possano evitarla, non le abbiamo ancora inventate, siamo più vicini alla scoperta di un vaccino si dice, forse, ma per il momento non funziona ancora bene, anzi!  in ogni caso, c’è da giurarci che non smetteremo di cercarlo.
Non c’è più niente da fare, me lo ha ripetuto a voce bassa; solo accompagnarla, aiutarla a morire, per evitarle ulteriori, inutili, sofferenze. Così ha ripetuto il veterinario aggiungendo che avrebbe pensato a tutto lui, che sarebbe bastata una puntura per mettere fine a questa sofferenza, sua, mia, nostra, che avrei potuto accomodarmi di là, che avrei potuto anche fare a meno di assistere… e invece sono rimasto, lì, incapace di qualsiasi decisione, se non quella di stare…con te. Non so… ma mi è sembrata una vigliaccheria… ha vissuto con me tutta la sua vita, siamo noi due che dobbiamo salutarci; e infatti ci siamo guardati negli occhi, fino all’ ultimo, fino a  quando la luce si è spenta, si, mi è sembrato proprio così, quando la vita se ne è andata.
Non ho voluto neppure lasciarla dopo, dal veterinario, anche se mi rendo conto che sarebbe stato meglio, perché non ho un giardino, anzi neppure un vaso in un balcone, e capisco che non mi sarà facile trovare dove seppellirla. Vivo in città, l’unica possibilità sarebbe quella di cercare un giardino pubblico, ma l’idea di mettermi a scavare in mezzo alla gente mi sembra perlomeno improbabile, e poi forse è anche proibito, anzi credo proprio che sia proibito seppellire un animale in un giardino pubblico. Il fatto è che non volevo sbarazzarmene come ci si sbarazza di un oggetto rotto, mi è sembrata una mancanza di rispetto, per lei…ma anche per me….per i miei sentimenti…non ce l’ho fatta a lasciarla lì da sola, non ce l’ho  fatta… a restare improvvisamente  solo.
Così, mi trovo ora, la vista offuscata da lacrime che non riesco a fermare; ma perché poi…  vagando, guidando; con in faccia il vento di tutti i finestrini aperti, per strade che non conosco, o che non riconosco; con lei, piccolo fagottino inerte, avvolto nella sua coperta, sul sedile di fianco. Dovrò trovarlo un posto, un bel posto dove ci batta il sole durante il giorno; magari sarebbe bello trovarne uno dove si senta scorrere l’acqua vicino, ecco, vorrei trovare un posto con tutte le cose che ti piacevano, e…certo che ti lascerò pure la tua coperta, e poi ti verro a trovare, certo, così non starò a casa, da solo. Già, dovrò trovare pure il coraggio di tornare a casa, mi farà paura trovarla vuota, so che farà più freddo, so che ci sarà troppo silenzio, so che il tempo non basteranno gli orologi per misurarlo, so che non sarà più la mia casa, so che mi sembrerà una tomba; e poi…già lo so che si riempirà di fantasmi, tutto, tutti quelli che ho amato torneranno per tormentarmi con la loro assenza, tutta la vita che è stata, amori, speranze, sogni, si affolleranno, si avvicenderanno infaticabili per infierire sulla mia solitudine, per non dar pace a questa mia vecchiaia che con tanta ostinazione si avvinghia all’anima che non vuole lasciare andare.
Ora ci sarai anche tu, e ho paura di non farcela, non ho niente cui aggrapparmi, non sono riuscito a difendermi dal tuo amore, non avrò avuto il tempo di difendermi dal mio amore…per questo non ce la faccio…a tornare a casa voglio dire…forse domani… domani…con il sole, con la luce… tutto è  più facile con la luce, anche avere coraggio è più facile quando c’è luce; si, domani riuscirò ad affrontarti, perché lo so che mi correrai incontro appena aprirò la porta, con tutti i ricordi di tutti i momenti, di tutti i giorni, di tutti gli anni…ora non posso, non ce la faccio, non ne sono capace, e poi…si sta già facendo sera.
Non me ne ricordavo più, c’è il problema della spazzatura a Napoli e sembra di essere in un incubo irreale, le strade traboccano di ogni cosa, superflua, o presunta tale, nessun essere vivente, per grande che sia, può eguagliarci nella produzione di merda, e poi inorridiamo per la cacca di un cane! Certo che bisogna proprio mettercisi d’impegno, voglio dire che non è facile, che ci vuole proprio una volontà meticolosa, ininterrotta, ossessiva, per riuscire ad ottenere risultati così brillanti, per arrivare a produrre una tale spaventosa evacuazione di rifiuti. Ecco ora l’odore acre dei roghi comincia a spandersi, e intorno in lontananza i bagliori delle fiamme si stagliano già contro il cielo, il rituale degli incendi si perpetua anche stanotte. Mi viene da pensare, che un giorno, chi lo sa, tra mille anni, forse, qualcuno studiando dai reperti la nostra cultura, giungerà alla conclusione che la nostra fu una civiltà merdologica, che raggiunse una straordinaria specializzazione nella produzione e nella conservazione della merda e i cui più alti dignitari venivano scelti tra coloro che seppero distinguersi per la vastità e la fedeltà alla produzione.
Ho sentito al telegiornale che hanno mandato l’esercito, per sedare focolai di malcontento che si stanno creando e che la gente, si organizza, manifesta, sobillata dalla camorra, diceva un giornalista; ma qualcuno li dietro gridava che è la politica la vera camorra, che il pesce puzza dalla testa, che è un volere politico lo scempio che si sta facendo della città e della sua gente.
Arriveranno i soldati allora…ma forse sono già arrivati; e, chi lo sa se almeno loro lo sanno chi debbono difendere e da chi; si, insomma… se è la gente che debbono difendere dalla camorra o la camorra dalla gente. Ma poi…chissà cosa hanno nella testa i militari. Tu credi che si faccia domande, che si chieda cosa è giusto, o cosa è sbagliato; un soldato mentre nasconde una mina  dove probabilmente passerà solo un bambino per pascolare qualche pecora?  Cosa non darei per sapere che pensieri gli passano nella testa in quel momento;  pensa solo allo stipendio che  prende per ubbidire? O  si racconta che  sta facendo un atto eroico a difesa della patria? O non  pensa a nulla, perché la testa, l’anima, sono state lasciate lontano, perché non ci siano testimoni, per non rischiare di essere tormentati per tutta la vita. Ma forse pensa solo di vendicare le umiliazioni subite, perché la verità mi sembra  che la testa, l’anima, gliele hanno portate via, in mesi, anni di addestramenti …addestramenti? Che strano, è la stessa parola che si usa per gli animali al circo! …Non ti è mai capitato di assistere a una parata militare? A me si, purtroppo, è incredibile cosa la mente umana riesce a immaginare, ci si vedono sfilare soldati che esibiscono andature che potrebbero essere l’orgoglio di un domatore del circo appunto, andature tenute in equilibrio da un unica logica possibile, la volontà di ridicolizzare , di umiliare colui che deve esibirla, o subirla? Per la sadica soddisfazione  di un potere malato. Chi lo sa forse un giorno  ci si renderà conto della necessità di curare questi poveri disgraziati portatori e creatori di infelicità; si imparerà a riconoscerne i sintomi già nei bambini, li si aiuterà a comprendere che in nessun atto di potere, c’è amore per se stessi o per il proprio prossimo, ma c’è solo paura; di non essere degni d’amore? Di non essere capaci d’appartenere? Di non riuscire a gioire  per la bellezza, che esiste, per la vita che scorre… a prescindere…
E ora? A chi le dirò ora tutte le cose che non si possono dire, chi nasconderà nel segreto della sua misteriosa magia tutte le cose che non si debbono ascoltare? Dove troverò mai più quella  purezza  che dalle gialle fessure dei tuoi occhi sapeva assolvere la scandalosa ingenuità delle mie confessioni  Mai più la condiscendenza del tuo “ron -  ron” sereno,  permetterà alle mie parole la libertà e alla mia anima di acquietarsi..
Accidenti! Ho tutti i finestrini aperti, devo chiudere , e devo sbrigarmi, mi stanno lacrimando gli occhi, e la gola mi brucia per il fumo; ma come ho fatto a non accorgermi che stavo  entrando nell’inferno! E ora? Che sarà meglio? Tornare indietro? Ma dove? E, da dove? O   proseguire, andare avanti; già, è sempre lo stesso dilemma; Eduardo diceva: “ adda passà a nuttata” il problema è solo aver fiducia …di farcela.
Non so neppure io perché sono sceso dalla macchina; non so che voglia mi ha preso di aggirarmi in questo inferno di fumo, di braci, di acqua; cosa sono venuto a cercare in questa fine del mondo? Non c’è niente qui; possibile che sia proprio questo niente che cerco? Per liberarmi di te? Di me? Del peso dei sentimenti? Dell’amarezza  della realtà? Sono venuto  per evacuare la mia tristezza? Già, deve essere per questo che questi mucchi crescono così velocemente a dismisura, perché ormai presi dal vortice dell’usa e getta non siamo più capaci di tenerci niente, neppure il dolore, neppure la felicità. Che cosa sarà riuscito a gettare via  chi ha buttato qui questa scatola chiusa alla svelta con uno spago; chi lo sa, forse ha pensato che erano solo dei gattini; non si è accorto che c’erano  la sua dignità? La sua umanità? Il rispetto di se stesso?
Avranno avuto una settimana… o forse due… ma ormai non ha più importanza…
Ma forse….Quello….questo… forse ce la fa…dai! Resisti….ti porto via…. Ce la fai… ce la facciamo.


Napoli 2008